sabato 29 agosto 2015

Postfazione di Plinio Perilli al mio libro di poesia IL SEGUITO MANCANTE (Puntoacapo editrice)

“Convertendo i tempi a un infinito presente…”


(Per Marco Righetti e il suo Seguito mancante)



   Nella fitta, accanita pletora dei troppi facitori di versi che ci circondano – più corrivi che ispirati, più ipotetici che talentuosi – Marco Righetti si distingue per l’essenziale, sicura virtù dell’esser poeta: “In questa legatura di rovine perfette / non è abitata / l’idea / che qualcosa parli di noi”.
   A quattro anni dal bell’esito di Dirette (Lietocolle, 2006), quest’ex-avvocato penalista romano (classe ’58), salvatosi dai purgatori delle pandette e dei codici come nobile, avulso funzionario del parastato, destruttura e ristruttura, al solito, nel frammentato iter d’un continuum o memento poematico, un discorso irto di pause ma anche accenti essenziali, vocato all’investigazione e insieme all’ingrandimento di ogni intimo e pur minimo, esoso reperto esistenziale:

   …
   Non vedendo l’ormeggio dei gesti
   cresciuti nell’ombra
   chiederò al sangue
   di scacciare quest’indifferenza
   che sale l’età avuta ieri

   dimmi del parco che gonfiava colori
   nel ventre della città
   le stagioni non vengono più
nella mano del padre
   giungono con riso distratto
   e l’impronta di un sole lontano
                            freddato un poco
   perché non infiammi.
   …

   Favole d’identità, titolava Northrop Frye un suo grande saggio del ’63, alla ricerca, insieme, del tempo perduto e di quella che lui stesso chiama “mitologia poetica”…

   Quando la metafora dice che una cosa “è” un’altra cosa, e che un uomo una donna e un merlo sono la stessa cosa, certe cose vengono identificate con altre cose. Nell’identità logica c’è solo l’identificazione del come. Se io dico che la regina d’Inghilterra è Elisabetta II, io non identifico  una persona con un’altra, ma una persona come se stessa. Anche in poesia si trova questo tipo d’identificazione, poiché  nella metafora poetica le cose si identificano, è vero, l’una con l’altra, eppure ciascuna è identificata come se stessa, e conserva questa identità.

   È quest’identità profonda che presiede un po’ a tutte le poesie di Marco Righetti – e smentisce in partenza il lezioso luogo comune che nella metafora poetica le cose si identificano… Naturalmente no, perché ciascuna è identificata come se stessa

  
   potremmo anche apparire sullo schermo
   del cuore
   fare un collage del non detto
  
   noi passisti della lunga distanza
   in cerca di episodi mordenti
   e analisi impudiche

   strabiche verità
   restituite.

   Lucidità memoriale, e, in parallelo, trasparente assimilazione, sovrapposizione linguistica, stilistica… Sembra essere tale, il metodo, l’ossimoro concettuale, lo sliricato sommosso lirismo con cui Marco insegue la poesia anzitutto dentro di sé, per ricondurla fuori, riseminarla, liberarla al mondo – come appunto ogni seria, anche drammatica memoria penalistica lotta e pensa in nome di un’innocenza che tutti gli altri vorrebbero (anzi devono) mettere in dubbio – perfino la suprema entità Stato… Ma lo status lirico-giudiziario di Righetti, qui è molto più complesso e in fondo capzioso: essendo egli insieme ad-vocatus difensore, pubblico ministero e perfino giudice, dunque trinitariamente poeta della propria Realtà…
   Ogni vera poesia deve essere infatti pronta a eleggersi procuratrice del Mondo… A difendere anche e soprattutto “un’immigrata”:

   In Italia, allattata da interna pupilla
   ti procuri un valico tra stupore e timore

   dimmi: ora che sono anni
   di soggiorno
   noti l’espansione di vie solari?

   Mi prendo il lago da traversare
   le nascite da rifare
   con gli oroscopi.

   Chi ti allenò
   a mettere il cuore ad ovatta?
   Sono certo lontane tribù
   vive
   quando i villaggi franarono.

   Il fiume qui non ti tocca i piedi
   come un amore infido.

   Ma alla poesia incombe anche il compito, l’onore e l’onere della pubblica accusa (sia pure nella fattispecie della dolce, vezzeggiante ironia: “a S.P. per la fine di un amore”):

   Mi lanci messaggi perché lui era
   una storia che sembrava in sequenza
   e adesso qualche altra
   gli specchia un desiderio.
   Forse vuoi fantasticare – dolorandoti –
   la donna che potevi essere
   con maggiore scollo?

   Infine, eccola traslata, rivestita e acclarata da giudice (o togato membro d’un assortito, inopinato, perfino kafkiano collegio giudicante):

   se l’anima è schiacciata
   dalla depressione
   toglila, luna,
   ritroverà il suo posto aereo
   come un segnalibro
   per una lettura magari
   meno coinvolta,
   più vicina
   a troposfere di fiducia

   La poesia è infine la sentenza (così come era stata la prova, in fondo anche la norma calpestata, ed ora da restaurare):

   d’accordo
   se lui si sottrae a un seguito
   resta il titolo “fu nuvolo d’amore”

   ma quelle scene esposte in viso
   nascondile nell’umore vitreo
   per evitare che un cacciatore
   di frodo s’insospettisca
   e con un colpo
   laceri
   tue lune superstiti
   che usi per sperarti

   Luce e Ombra ammantano rapinosamente tutto questo libro trasceso e trascendentale di un’unica luce, che è insieme chiarità umbratile ed eclissi solare…
   Amore e Dolore, Desiderio e Atarassìa, Assenza o Dialogo, escono da qualsiasi logica categorica, teoretica, staremmo per dire perfino sintattica, per giocare a ricomporre il puzzle di un immaginario che finalmente assommi in sé anche l’immaginativo (sempre secondo l’aurea analisi di Frye condotta a cavallo di tanti secoli di cultura, di mode, e perfino di imposizioni da parte del Leviatano Potere, che fino almeno al Settecento premoderno aveva sancito certi invalicabili dettami finanche estetici: “L’immaginario appartiene alla malinconia individuale e ai suoi ghiribizzi; l’immaginativo fa parte d’un ordine naturale e umano fissato da un decreto divino”)…
   Non stupiamoci della pazienza ed anche della curiosità del critico a tuffarsi in un libro di poesia per decrittarne, periziarne ad infinitum tutti o quasi i passaggi più strani e intriganti (potremmo anche dire: condivisibili). Pensiamo che uno strutturalista come Silvio Avalle D’Arco – il quale riuscì ad applicare la semiologia perfino a Dante e a tutto il medioevo – dedicò a una sola poesia di Montale (quella il cui incipit suona “Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera…”, ed è contenuta ne La bufera), un intero, sapientissimo saggio, “Gli orecchini” di Montale:
  
   … Qui tutto è scomparso, tranne lo specchio. Anzi sembra che lo specchio sia l’unico oggetto che ancora ci colleghi con il resto del mondo. Ora, perché il poeta ha “visto” proprio questo oggetto? Non può darsi che la scelta sia stata dettata da altre considerazioni? La situazione sembra quella, già prevista nel 1946, della intervista immaginaria: “tutto è interno e tutto è esterno per l’uomo d’oggi”.
   … La “spera” dunque riflette la realtà. Su questo non ci sono dubbi (altri, come T. Gautier ad esempio, mostrano invece alcune incertezze al riguardo). Ma la realtà, è altrettanto vero, cambia senza lasciar “ombra”, traccia o parvenza di sé, nel mezzo che via via la accoglie e la riflette. Dalla “spera” sarà quindi lecito ricavare una lezione di carattere più specifico; quella della “[ir]reversibilità dell’ordine temporale”.   …

   Il seguito mancante, ultimo testo di Marco Righetti, è ricchissimo umbratile specchio di affilate connotazioni stilistiche, di fiere digressioni esistenziali, insomma di materiale per una giudiziosa e compartecipe indagine critica. Il subconscio stesso del fare poetico detta di continua a Marco un’interminabile sequela di ricordi tangibili e aneddoti sentimentali… Con pazienza egli li riordina e ancora li mischia – come un glorioso mazzo di carte… Le dispone sul bianco tavolino della pagina, casualmente ne architetta un ordito impeccabile quanto aleatorio; chiede un’altra carta o ricordo e ancora la getta, lo scarta; con pazienza attende, con pazienza agisce, registra l’intelaiatura di Psiche, la denuda e ri-vela ancora:

   Oggi vorresti andare bene 
                                                 (a R.B.)
   mi hai detto che appena sveglia
   le mani vanno da sole
   sull’ordinario,
   l’abitudine a crederci ancora,

   quest’epoca a livello dei tuoi occhi
   così la vedi (ieri un’altra carne
   un’altra illusione)

   oggi vorresti andare bene
   incrociare fortune
   da animale parlante
   bere porti dove ti prendano a bordo

   e baccani di luce
   nessi in costruzione.

   Ci torna dolce imago in mente un bel passaggio degli scritti di Leonardo, dove divaga sui meriti e quasi i rituali gnostici della Pazienza:

   COMPARAZIONE DELLA PAZIENZIA. – La pazienzia fa contro alle ’ngiurie non altrementi che si faccino i panni contra del freddo; imperocché se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del freddo, esso freddo nocere non ti potrà. Similmente alle grandi ingiurie cresci la pazienzia; esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.

   Anche Marco Righetti è diligente adepto di una Musa paziente, amante suo fedele ed al contempo inquieto, proprio come si conviene:

   Se i versi fanno vivere sotto altro nome
   usa la pena del cuore
   e abbi l’oro comune
   di ri-crearti da un nonnulla

   la notte lascia sempre sue isole
   insepolte,
   lasciati circondare dal tempo:
   vedrai che moriranno da sole
   le tue case disabitate
   le cose che non ti somigliano.

   Usare la penna del cuore, ricrearsi da un nonnulla, lasciarsi circondare dal tempo come un’isola suadente ed esotica, comunque un’oasi di pace… Ecco qualche sana e sparsa regola di poesia che Marco vuole, vorrebbe suggerire, additare e assegnare alla Vita – quella propria, ma nondimeno pure quella degli altri, di tutti i nostri cari bipedi consimili, frequentati o incrociati:

   togliendo otturazioni in memoria
   siamo tutti vivi
   per cenni di fine
   dicitura
   prendi il linguaggio
   che tua madre ti lasciò
   sull’orecchio come un codice
   per ascoltare in differita

   il suo racconto post-ombelicale
   il ritmico cercarti
   all’ora del probabile
   risveglio

   quando temeva
   di bagnarti oltremisura

   alterando il ronzio del cuore.

   Libro complesso e munifico, questo. Anche originale, seppure coltivato e nutrito di un’ininterrotta tensione intellettuale che sembra aver assai bene imparato, e quasi mimato la grande tradizione intellettuale del ‘900 migliore: che è italiano, certo (Montale, Sereni, Fortini, un certo Zanzotto, alcune nuances di Giudici, quello insomma di Autobiologia e La vita in versi) ma in maggior misura ancor più straniero (il provvido magistero anglosassone: Eliot, Auden – e i più irregolari dei contemporanei francesi: Michaux, Char, Frénaud, fino a Bonnefoy)…
   No, non c’è la chitarra acustica e gitana della più fervida melica espagnola: i Lorca, i Machado, gli Aleixandre), ma come l’ombra lunga e ancora interminata d’un’investigazione della coscienza che trovò i suoi grandi, riottosi eroi in certi espressionisti tedeschi (da Trakl a Benn, per intenderci, fino alla Bachmann o all’odierno Enzensberger)…
   Qui il linguaggio ausculta il linguaggio, mentre il cuore impazza o si raffrena, tachicardico o sedato come per provvida indispensabile terapia… E la poesia non è forse – da sempre, e finché esisterà, respirerà il nostro insopprimibile intelletto d’amore – l’unica, la più sterminata e insinuante terapia d’ogni dolore d’anima?!

   Scrivo, uscirà la voce
   le strofe con corrimano antivento,
   metto in gara noto ed inconnu
   chi vince mi pulirà la faccia ingiallita,
   questa carta troppo esposta,
                  
                               scrivendo resta
   l’impronta del giorno
   l’aritmia di scoppi di luce
   appassiti un attimo
   nelle campiture.

   Quest’epoca a livello dei tuoi occhiTutto è interno e tutto è esternoForse vuoi fantasticare – dolorandotiL’aritmia di scoppi di luce
   Finite, spiumate le alate vorticose elegie di Rilke, quelle tremende e arcangeliche interrogazioni diacroniche e cosmogoniche – finito, licenziato il poeta-aedo che canta, trasfigura e profetizza le immense radiose sorti o i cupi flussi del mondo – così come il più amarevole e reso saggio Wystan Hugh Auden, il nostro caro Righetti può oggi stoicamente chiedersi (chiederci) La verità, vi prego, sull’amore – ma anche e al contempo rifugiarsi tra le ombre sicure – e chiarissime – dell’Amor di Verità, addentro alla nostra inesauribile e imperitura, ahinoi, Age of Anxiety
   Molto belle, ad esempio, certe sue poesie tese a ritrarre le schegge impazzite, o le esistenze fin troppo pazienti e quietate del microcosmo che lo circonda (donne, amici, conoscenti, umili comuni creature incrociate e affrontate come lo specchio oscuro di Montale di cui parlava Avalle)… Una sacrosanta etica laica che ci abbisogna e degnamente non poco ci consola, lenisce tutti i consueti bilanci in rosso per crisi, decadenza o sterile assuefazione; diciamolo pure, atroce, risibile sindrome postmoderna:

   I nuovi media muovono velocissimi
   convertendo i tempi a un infinito presente
   e così rimettono in circolo ore
   che si staccarono per troppa pena,
   i messaggi persi nella neve,
   gli amori consumati senza un addio.

   Non è morto il buio chiaro di un’urgenza

   destato di soprassalto
   è finito nelle scansie dei file,
   tra i punti esclamativi di priorità.

   Un dono a parte del libro è la lunga, confessata sequenza ombelicale – il vero e proprio medio-metraggio lirico – dedicato dall’autore alla Madre: capace di commuoverci e spesso sorprenderci con pagine tra le più rigorose e gemmanti che sia oggi capace di ricambiarci, dedicarci, la compunta, assiderata pianta e pietas della nostra poesia. Ispirati, irruenti tagli di verde a squarciare scorza e tempo, mente e mèmne, logos e pathos – per stile, necessità, linfa e lucore lirici…

   Allora mi davi da bere
   piccole conciliazioni giornaliere
   madre-corrente
   quasi svenata
   a inocularmi
   un clima mite.

   Oggi ti parlo (io fi-lamento)
   da un presente incauto,
   aghi di pino sulle strade di ieri,

   c’erano massimi sistemi
   nell’istmo-casa
   si protendeva in azzurro,
   lima corta alla distanza,
   a prenderla in mano c’è da ferirsi.      

   Se è vero come è vero e come ci insegnano non più i preti (o i magistri interiori), ma dunque più ancora gli psicoanalisti, che il rapporto con la Madre (anzi, la “sempre-madre”) supporta o inficia le energie e le speranze e le comuni azioni del 90% degli uomini, Marco Righetti ci si consegna fervidamente illeso (eminente aggettivo luziano!) oltre ogni marasma, terremoto contingente o invece proprio epocale…

   temo
   il decreto definitivo
   che ti faccia morire
   per sempre
   non apparirmi
   non consolarmi
   non darmi segni di piena
   né di pena
   torno in zona edipica:
   portami come tua veste
   cliché terreno,
   anche Dio
   fu incantato da sua Madre.

   Righetti – parafrasiamo appunto il celebre inciso lirico del nostro caro e mai dimenticato Mario Luzi – entra nei suoi pensieri e ne esce illeso.

   Costruisco questo passato in fieri
   che ripesca fatti già chiusi
   e gli mette l’armatura
   perché reggano
   alla domanda che un giorno
   potrebbe sbattere

   quali furono i punti
   dove ci si poteva sporgere
   per amare.

    Non c’è per ogni poesia contemporanea miglior approdo, miglior premio di duro filamento, di alta, cupa fiamma… Perché proprio questo, luzianamente, Marco Righetti fa: riassestare, ricucire l’elegia a brandelli del nostro tempo, al fuoco della controversia, abbruciacchiato o assiderato nel magma, in cima a ogni Etna esplodente e innevato, salvare friabile roccia lavica e neoleopardiane ginestre, fiori del deserto… Per il battesimo dei nostri (e suoi stessi) frammenti poi con tenera devozione (e talvolta anche fiero cipiglio) costruisce, rispetta, ardisce e ordisce il laico rito della Scrittura…
   Ma Le magnifiche sorti e progressive restano indietro, superate dai tempi, dagli eventi, dalla scienza e perfino dall’Io…  
   Nessuno meglio di Marco riesce a maneggiare perfino l’abusato linguaggio e le perdute, svilite scorie della contemporaneità, sacramentandoli a dignità di poesia…
   Luzi giovane, ermetico florentino, in obbrobriosa nolente guerra per la kultur, aveva “il cipresso equinoziale”, “la bontà opaca di ieri”, “l’inquietudine estrema dei velari”, “le parole esiliate”… Aveva poi Mallarmé, Eliot, Montale e l’Avvento notturno, la sua “solenne irta esistenza”…
   E Righetti ribatte, surroga oggi con una sequela globalizzata, quasi un consumistico incubo di “monitor”, “clip”, “file”… “Ospiti della Rete / continuiamo a correre / con il medesimo bruciore di prima: // scostare l’ombra // definitivamente // dalla luce”.
 
   Ovviamente Il seguito è mancante… Così come sempre in poesia deve, dovrebbe essere…   

   Nel bilancio corrente non aspetto
   il rosso di qualche segnale
   per vedere
   com’è andata,

   userei gli sconti del dopo
   le care attitudini
   a una memoria inventata.

   Mi metto direttamente
   salsedine sulla pelle
   per credere
   che prima
   c’era il mare

 Nella partita doppia di ogni vita, ciò che si segna in uscita, talvolta perfino in pura perdita, sempre e comunque, si sa, rientra trasparentemente in attivo, bizzarro tropo d’esperienza, burocratico ermeneutico credito d’imposta, cara attitudine di una memoria forse anche inventata, romanzata lievitando in versi, ma finalmente restaurata, ora meglio macerata, decantata, abitata di nuovo – splendida coppia! – dal Gentilissimo Signor Io e dalla Sua Signora Anima…


                                                             Plinio Perilli 

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