“Convertendo i tempi a
un infinito presente…”
(Per Marco Righetti e il suo Seguito mancante)
Nella fitta, accanita pletora dei troppi
facitori di versi che ci circondano – più corrivi che ispirati, più ipotetici
che talentuosi – Marco Righetti si distingue per l’essenziale, sicura virtù
dell’esser poeta: “In questa legatura di rovine perfette / non è abitata
/ l’idea / che qualcosa parli di noi”.
A quattro anni dal bell’esito di Dirette (Lietocolle,
2006), quest’ex-avvocato penalista romano (classe ’58), salvatosi dai purgatori
delle pandette e dei codici come nobile, avulso funzionario del parastato,
destruttura e ristruttura, al solito, nel frammentato iter d’un continuum
o memento poematico, un discorso irto di pause ma anche accenti essenziali,
vocato all’investigazione e insieme all’ingrandimento di ogni intimo e pur
minimo, esoso reperto esistenziale:
…
Non vedendo l’ormeggio dei gesti
cresciuti nell’ombra
chiederò al sangue
di scacciare quest’indifferenza
che sale l’età avuta ieri
dimmi del parco che gonfiava colori
nel ventre della città
le
stagioni non vengono più
nella
mano del padre
giungono con riso distratto
e l’impronta di un sole lontano
freddato un poco
perché non infiammi.
…
Favole d’identità, titolava Northrop
Frye un suo grande saggio del ’63, alla ricerca, insieme, del tempo perduto e
di quella che lui stesso chiama “mitologia poetica”…
Quando la metafora dice che una cosa “è”
un’altra cosa, e che un uomo una donna e un merlo sono la stessa cosa, certe
cose vengono identificate con altre cose. Nell’identità logica c’è solo
l’identificazione del come. Se io dico che la regina d’Inghilterra è
Elisabetta II, io non identifico una
persona con un’altra, ma una persona come se stessa. Anche in poesia si trova
questo tipo d’identificazione, poiché
nella metafora poetica le cose si identificano, è vero, l’una con
l’altra, eppure ciascuna è identificata come se stessa, e conserva questa
identità.
È quest’identità profonda che
presiede un po’ a tutte le poesie di Marco Righetti – e smentisce in partenza
il lezioso luogo comune che nella metafora poetica le cose si identificano…
Naturalmente no, perché ciascuna è identificata come se stessa…
…
potremmo anche apparire sullo schermo
del cuore
fare un collage del non detto
noi passisti della lunga distanza
in cerca di episodi mordenti
e analisi impudiche
strabiche verità
restituite.
Lucidità memoriale, e, in parallelo,
trasparente assimilazione, sovrapposizione linguistica, stilistica… Sembra
essere tale, il metodo, l’ossimoro concettuale, lo sliricato sommosso
lirismo con cui Marco insegue la poesia anzitutto dentro di sé, per ricondurla
fuori, riseminarla, liberarla al mondo – come appunto ogni seria, anche
drammatica memoria penalistica lotta e pensa in nome di un’innocenza che
tutti gli altri vorrebbero (anzi devono) mettere in dubbio – perfino la suprema
entità Stato… Ma lo status lirico-giudiziario di Righetti, qui è molto
più complesso e in fondo capzioso: essendo egli insieme ad-vocatus difensore,
pubblico ministero e perfino giudice, dunque trinitariamente poeta della
propria Realtà…
Ogni vera poesia deve essere infatti pronta
a eleggersi procuratrice del Mondo… A difendere anche e soprattutto
“un’immigrata”:
In Italia, allattata da interna pupilla
ti procuri un valico tra stupore e timore
dimmi: ora che sono anni
di soggiorno
noti l’espansione di vie solari?
Mi prendo il lago da traversare
le nascite da rifare
con gli oroscopi.
Chi ti allenò
a mettere il cuore ad ovatta?
Sono certo lontane tribù
vive
quando i villaggi franarono.
Il fiume qui non ti tocca i piedi
come un amore infido.
Ma alla poesia incombe anche il compito,
l’onore e l’onere della pubblica accusa (sia pure nella fattispecie della
dolce, vezzeggiante ironia: “a S.P. per la fine di un amore”):
Mi lanci messaggi perché lui era
una storia che sembrava in sequenza
e adesso qualche altra
gli specchia un desiderio.
Forse vuoi fantasticare – dolorandoti –
la donna che potevi essere
con maggiore scollo?
Infine, eccola traslata, rivestita e
acclarata da giudice (o togato membro d’un assortito, inopinato, perfino
kafkiano collegio giudicante):
se l’anima è schiacciata
dalla depressione
toglila, luna,
ritroverà il suo posto aereo
come un segnalibro
per una lettura magari
meno coinvolta,
più vicina
a troposfere di fiducia
La poesia è infine la sentenza (così come
era stata la prova, in fondo anche la norma calpestata, ed ora da restaurare):
d’accordo
se lui si sottrae a un seguito
resta il titolo “fu nuvolo d’amore”
ma quelle scene esposte in viso
nascondile nell’umore vitreo
per evitare che un cacciatore
di frodo s’insospettisca
e con un colpo
laceri
tue lune superstiti
che usi per sperarti
Luce e Ombra ammantano rapinosamente tutto
questo libro trasceso e trascendentale di un’unica luce, che è insieme chiarità
umbratile ed eclissi solare…
Amore e Dolore, Desiderio e Atarassìa,
Assenza o Dialogo, escono da qualsiasi logica categorica, teoretica, staremmo
per dire perfino sintattica, per giocare a ricomporre il puzzle di un immaginario
che finalmente assommi in sé anche l’immaginativo (sempre secondo
l’aurea analisi di Frye condotta a cavallo di tanti secoli di cultura, di mode,
e perfino di imposizioni da parte del Leviatano Potere, che fino almeno al
Settecento premoderno aveva sancito certi invalicabili dettami finanche
estetici: “L’immaginario appartiene alla malinconia individuale e ai suoi
ghiribizzi; l’immaginativo fa parte d’un ordine naturale e umano fissato da un
decreto divino”)…
Non stupiamoci della pazienza ed anche della
curiosità del critico a tuffarsi in un libro di poesia per decrittarne,
periziarne ad infinitum tutti o quasi i passaggi più strani e intriganti
(potremmo anche dire: condivisibili). Pensiamo che uno strutturalista come
Silvio Avalle D’Arco – il quale riuscì ad applicare la semiologia perfino a
Dante e a tutto il medioevo – dedicò a una sola poesia di Montale (quella il
cui incipit suona “Non serba ombra di voli il nerofumo / della spera…”,
ed è contenuta ne La bufera), un intero, sapientissimo saggio, “Gli
orecchini” di Montale:
… Qui tutto è scomparso, tranne lo specchio.
Anzi sembra che lo specchio sia l’unico oggetto che ancora ci colleghi con il
resto del mondo. Ora, perché il poeta ha “visto” proprio questo oggetto? Non
può darsi che la scelta sia stata dettata da altre considerazioni? La
situazione sembra quella, già prevista nel 1946, della intervista immaginaria:
“tutto è interno e tutto è esterno per l’uomo d’oggi”.
… La “spera” dunque riflette la realtà. Su
questo non ci sono dubbi (altri, come T. Gautier ad esempio, mostrano invece
alcune incertezze al riguardo). Ma la realtà, è altrettanto vero, cambia senza
lasciar “ombra”, traccia o parvenza di sé, nel mezzo che via via la accoglie e
la riflette. Dalla “spera” sarà quindi lecito ricavare una lezione di carattere
più specifico; quella della “[ir]reversibilità dell’ordine temporale”. …
Il seguito mancante, ultimo testo di
Marco Righetti, è ricchissimo umbratile specchio di affilate connotazioni
stilistiche, di fiere digressioni esistenziali, insomma di materiale per una
giudiziosa e compartecipe indagine critica. Il subconscio stesso del fare
poetico detta di continua a Marco un’interminabile sequela di ricordi tangibili
e aneddoti sentimentali… Con pazienza egli li riordina e ancora li mischia –
come un glorioso mazzo di carte… Le dispone sul bianco tavolino della pagina,
casualmente ne architetta un ordito impeccabile quanto aleatorio; chiede
un’altra carta o ricordo e ancora la getta, lo scarta; con pazienza attende,
con pazienza agisce, registra l’intelaiatura di Psiche, la denuda e ri-vela
ancora:
Oggi vorresti andare bene
(a R.B.)
mi hai detto che appena sveglia
le mani vanno da sole
sull’ordinario,
l’abitudine a crederci ancora,
quest’epoca a livello dei tuoi occhi
così la vedi (ieri un’altra carne
un’altra illusione)
oggi vorresti andare bene
incrociare fortune
da animale parlante
bere porti dove ti prendano a bordo
e baccani di luce
nessi in costruzione.
Ci torna dolce imago in mente un bel
passaggio degli scritti di Leonardo, dove divaga sui meriti e quasi i rituali
gnostici della Pazienza:
COMPARAZIONE DELLA PAZIENZIA. – La pazienzia
fa contro alle ’ngiurie non altrementi che si faccino i panni contra del
freddo; imperocché se ti multiplicherai di panni secondo la multiplicazione del
freddo, esso freddo nocere non ti potrà. Similmente alle grandi ingiurie cresci
la pazienzia; esse ingiurie offendere non ti potranno la tua mente.
Anche Marco Righetti è diligente adepto di
una Musa paziente, amante suo fedele ed al contempo inquieto, proprio come si
conviene:
Se i versi fanno vivere sotto altro nome
usa la pena del cuore
e abbi l’oro comune
di ri-crearti da un nonnulla
la notte lascia sempre sue isole
insepolte,
lasciati circondare dal tempo:
vedrai che moriranno da sole
le tue case disabitate
le cose che non ti somigliano.
Usare la penna del cuore, ricrearsi da un
nonnulla, lasciarsi circondare dal tempo come un’isola suadente ed esotica,
comunque un’oasi di pace… Ecco qualche sana e sparsa regola di poesia che Marco
vuole, vorrebbe suggerire, additare e assegnare alla Vita – quella propria, ma
nondimeno pure quella degli altri, di tutti i nostri cari bipedi consimili, frequentati
o incrociati:
togliendo otturazioni in memoria
siamo tutti vivi
per cenni di fine
dicitura
prendi il linguaggio
che tua madre ti lasciò
sull’orecchio come un codice
per ascoltare in differita
il suo racconto post-ombelicale
il ritmico cercarti
all’ora del probabile
risveglio
quando temeva
di bagnarti oltremisura
alterando il ronzio del cuore.
Libro complesso e munifico, questo. Anche
originale, seppure coltivato e nutrito di un’ininterrotta tensione intellettuale
che sembra aver assai bene imparato, e quasi mimato la grande tradizione
intellettuale del ‘900 migliore: che è italiano, certo (Montale, Sereni,
Fortini, un certo Zanzotto, alcune nuances di Giudici, quello insomma di
Autobiologia e La vita in versi) ma in maggior misura ancor più
straniero (il provvido magistero anglosassone: Eliot, Auden – e i più
irregolari dei contemporanei francesi: Michaux, Char, Frénaud, fino a
Bonnefoy)…
No, non c’è la chitarra acustica e gitana
della più fervida melica espagnola: i Lorca, i Machado, gli Aleixandre), ma
come l’ombra lunga e ancora interminata d’un’investigazione della coscienza che
trovò i suoi grandi, riottosi eroi in certi espressionisti tedeschi (da Trakl a
Benn, per intenderci, fino alla Bachmann o all’odierno Enzensberger)…
Qui il linguaggio ausculta il linguaggio,
mentre il cuore impazza o si raffrena, tachicardico o sedato come per provvida
indispensabile terapia… E la poesia non è forse – da sempre, e finché esisterà,
respirerà il nostro insopprimibile intelletto d’amore – l’unica, la più
sterminata e insinuante terapia d’ogni dolore d’anima?!
Scrivo, uscirà la voce
le strofe con corrimano antivento,
metto in gara noto ed inconnu
chi vince mi pulirà la faccia ingiallita,
questa carta troppo esposta,
scrivendo resta
l’impronta del giorno
l’aritmia di scoppi di luce
appassiti un attimo
nelle campiture.
Quest’epoca a livello dei tuoi occhi…
Tutto è interno e tutto è esterno… Forse vuoi fantasticare –
dolorandoti… L’aritmia di scoppi di luce…
Finite, spiumate le alate vorticose elegie
di Rilke, quelle tremende e arcangeliche interrogazioni diacroniche e
cosmogoniche – finito, licenziato il poeta-aedo che canta, trasfigura e
profetizza le immense radiose sorti o i cupi flussi del mondo – così come il
più amarevole e reso saggio Wystan Hugh Auden, il nostro caro Righetti può oggi
stoicamente chiedersi (chiederci) La verità, vi prego, sull’amore – ma
anche e al contempo rifugiarsi tra le ombre sicure – e chiarissime – dell’Amor
di Verità, addentro alla nostra inesauribile e imperitura, ahinoi, Age of
Anxiety…
Molto belle, ad esempio, certe sue poesie
tese a ritrarre le schegge impazzite, o le esistenze fin troppo pazienti e
quietate del microcosmo che lo circonda (donne, amici, conoscenti, umili comuni
creature incrociate e affrontate come lo specchio oscuro di Montale di cui
parlava Avalle)… Una sacrosanta etica laica che ci abbisogna e
degnamente non poco ci consola, lenisce tutti i consueti bilanci in rosso per
crisi, decadenza o sterile assuefazione; diciamolo pure, atroce, risibile
sindrome postmoderna:
I nuovi media muovono velocissimi
convertendo i tempi a un infinito presente
e così rimettono in circolo ore
che si staccarono per troppa pena,
i messaggi persi nella neve,
gli amori consumati senza un addio.
Non è morto il buio chiaro di un’urgenza
destato di soprassalto
è finito nelle scansie dei file,
tra i punti esclamativi di priorità.
Un dono a parte del libro è la lunga,
confessata sequenza ombelicale – il vero e proprio medio-metraggio
lirico – dedicato dall’autore alla Madre: capace di commuoverci e spesso
sorprenderci con pagine tra le più rigorose e gemmanti che sia oggi capace di
ricambiarci, dedicarci, la compunta, assiderata pianta e pietas della
nostra poesia. Ispirati, irruenti tagli di verde a squarciare scorza e tempo,
mente e mèmne, logos e pathos – per stile, necessità, linfa e lucore lirici…
Allora mi davi da bere
piccole conciliazioni giornaliere
madre-corrente
quasi svenata
a inocularmi
un clima mite.
Oggi ti parlo (io fi-lamento)
da un presente incauto,
aghi di pino sulle strade di ieri,
c’erano massimi sistemi
nell’istmo-casa
si protendeva in azzurro,
lima corta alla distanza,
a prenderla in mano c’è da ferirsi.
Se è vero come è vero e come ci insegnano
non più i preti (o i magistri interiori), ma dunque più ancora gli
psicoanalisti, che il rapporto con la Madre (anzi, la “sempre-madre”) supporta
o inficia le energie e le speranze e le comuni azioni del 90% degli uomini,
Marco Righetti ci si consegna fervidamente illeso (eminente aggettivo
luziano!) oltre ogni marasma, terremoto contingente o invece proprio epocale…
temo
il decreto definitivo
che ti faccia morire
per sempre
non apparirmi
non consolarmi
non darmi segni di piena
né di pena
torno in zona edipica:
portami come tua veste
cliché terreno,
anche Dio
fu incantato da sua Madre.
Righetti – parafrasiamo appunto il celebre
inciso lirico del nostro caro e mai dimenticato Mario Luzi – entra nei suoi
pensieri e ne esce illeso.
Costruisco questo passato in fieri
che ripesca fatti già chiusi
e gli mette l’armatura
perché reggano
alla domanda che un giorno
potrebbe sbattere
quali furono i punti
dove ci si poteva sporgere
per amare.
Non c’è per ogni poesia contemporanea
miglior approdo, miglior premio di duro filamento, di alta, cupa
fiamma… Perché proprio questo, luzianamente, Marco Righetti fa:
riassestare, ricucire l’elegia a brandelli del nostro tempo, al fuoco della
controversia, abbruciacchiato o assiderato nel magma, in cima a ogni
Etna esplodente e innevato, salvare friabile roccia lavica e neoleopardiane
ginestre, fiori del deserto… Per il battesimo dei nostri (e suoi stessi)
frammenti poi con tenera devozione (e talvolta anche fiero cipiglio)
costruisce, rispetta, ardisce e ordisce il laico rito della Scrittura…
Ma Le magnifiche sorti e progressive
restano indietro, superate dai tempi, dagli eventi, dalla scienza e perfino
dall’Io…
Nessuno meglio di Marco riesce a maneggiare
perfino l’abusato linguaggio e le perdute, svilite scorie della
contemporaneità, sacramentandoli a dignità di poesia…
Luzi giovane, ermetico florentino, in
obbrobriosa nolente guerra per la kultur, aveva “il cipresso
equinoziale”, “la bontà opaca di ieri”, “l’inquietudine estrema dei velari”,
“le parole esiliate”… Aveva poi Mallarmé, Eliot, Montale e l’Avvento
notturno, la sua “solenne irta esistenza”…
E Righetti ribatte, surroga oggi con una
sequela globalizzata, quasi un consumistico incubo di “monitor”, “clip”,
“file”… “Ospiti della Rete / continuiamo a correre / con il medesimo bruciore
di prima: // scostare l’ombra // definitivamente // dalla luce”.
Ovviamente Il seguito è mancante…
Così come sempre in poesia deve, dovrebbe essere…
Nel bilancio corrente non aspetto
il rosso di qualche segnale
per vedere
com’è andata,
userei gli sconti del dopo
le care attitudini
a una memoria inventata.
Mi metto direttamente
salsedine sulla pelle
per credere
che prima
c’era il mare
Nella partita doppia di ogni vita, ciò che si
segna in uscita, talvolta perfino in pura perdita, sempre e comunque, si sa,
rientra trasparentemente in attivo, bizzarro tropo d’esperienza, burocratico
ermeneutico credito d’imposta, cara attitudine di una memoria forse anche
inventata, romanzata lievitando in versi, ma finalmente restaurata, ora meglio
macerata, decantata, abitata di nuovo – splendida coppia! – dal Gentilissimo
Signor Io e dalla Sua Signora Anima…
Plinio Perilli
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